giovedì 19 aprile 2012

Le tasse sul Junk Food

Le tasse sul Junk food non hanno senso, se si considera che la definizione di "Junk Food" è mediata da una distortura etica e non è supportata da una base scientifica. Le tasse del Junk food servono solo per fare cassa.

Un passaggio che riguarda questo argomento che è in realtà inserito in un argomento più vasto che contempla una serie di azioni che la società mette in atto con lo scopo dichiarato (ma non sempre effettivo) di voler ridurre l'impatto dell'eccesso di peso nella società.

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Soluzioni all’obesità

Le soluzioni all’obesità proposte dalle istituzioni sono molteplici; di seguito una rassegna dove le casistiche vengono raccolte per gruppi.

1- Le tasse sul junk food e le tasse sul grasso.
Da anni è aperto il dibattito a livello europeo e mondiale sull’opportunità o meno di limitare i danni derivanti dall’alimentazione tramite una tassazione sui prodotti considerati “colpevoli” o direttamente sul famigerato “grasso” che diventa l’emblema di componente alimentare messa sotto accusa: «Un dibattito particolare va sotto l’intestazione di “tasse del grasso”; la discussione era sul fatto che, dato che il produzionismo ha reso così economico il grasso, i suoi costi per la salute dovrebbero essere aggiunti attraverso la tassazione. Al dibattito è stata data particolare attenzione nella UE sull’obesità e sul consumo non solo del grasso conveniente, ma anche delle calorie a basso prezzo. Ma in concreto la ricerca di come e dove imporre una tassa sul grasso continua» (Lang et al., 2009:172).
In Europa la Commissione Europea sta valutando se seguire il caso apripista della Romania dove si è introdotta una tassa sui fast food, che vengono definiti junk food (Offeddu, Corriere della sera, 23 febbraio 2010). Per quanto riguarda il caso romeno, i ricavati di queste tasse andrebbero, come dichiarato, a finanziare programmi di educazione alimentare e sanitaria. Se prendiamo a riferimento questo esempio, si può asserire che questi programmi messi in atto per “salvare” le classi meno abbienti, in realtà costringono queste ultime a finanziare progetti che avranno effetti sulle fasce di popolazione più ricche e ricettive dal punto di vista culturale. Infatti questa tassa avrà come conseguenza un aumento del costo del cibo per coloro che consumano maggiormente questo tipo di alimenti, cioè le classi povere e meno acculturate.
Ci sono però casi, in tutti gli Stati Europei ma anche nel mondo, che prendono in considerazione varie componenti alimentari da tassare, nei quali i ricavi delle imposte non necessariamente vanno a coprire attività di tipo sociale ma servono principalmente per fare cassa: «[In Danimarca] nonostante meno del 10% dell’intera popolazione risulti essere clinicamente obesa, una percentuale ben al di sotto della media europea, dal primo ottobre è entrata in vigore una tassa sui grassi saturi contenuti negli alimenti. Lo scopo? Salvaguardare la salute pubblica del popolo danese, ma soprattutto rimpinguare le casse dello Stato. Con la fat tax arriveranno infatti ogni anno non meno di 200 milioni di euro. […] in Danimarca viene applicata quella che è considerata in assoluto la prima «fat tax». E tutto (o quasi) in nome della salute. Per i danesi che vanno a fare la spesa significa un aumento dei prezzi dei prodotti ad alto contenuto di grassi saturi, i veri nemici delle arterie, poiché accusati di aumentare il colesterolo e favorire di conseguenza l’insorgenza delle malattie cardiovascolari. […] Il nuovo provvedimento si applica a tutti i cibi venduti, quale che sia la natura e la provenienza, mentre l’alimento viene tassato in misura degli acidi grassi saturi che contiene. Gli alimenti che subiscono il tributo addizionale più sostanzioso, ha scritto il Copenhagen Post, sono il burro, gli oli e i prodotti lattiero-caseari in generale. L’imposta per i cibi con oltre il 2,3% di grassi saturi è in misura pari a 16 corone danesi (2,15 euro) al chilogrammo di nutriente. In altre parole: da oggi i danesi dovranno sborsare il 30% in più per una confezione di burro da 250 g. e l’8% in più per un sacchetto di patatine, mentre un litro d’olio d’oliva costerà loro il 7,1% più del solito. Altri numeri: l’imposta dovrebbe ridurre il consumo di grassi saturi di quasi il 10% e il consumo di burro scenderebbe secondo le previsioni del 15%. […] La scelta danese non è isolata, anzi è un esempio che viene seguito da diversi governi europei: la Francia ha deciso di aumentare dal 2012 la tassazione sulle bevande zuccherate, ritenute tra i responsabili dell’aumento dell’obesità in terra transalpina. La cosiddetta tassa sulla Coca Cola dovrebbe generare 120 milioni di euro in più da destinare alla previdenza sociale. Caso analogo in Ungheria dove a inizio mese è stata introdotta una tassa anti-obesità, un tributo addizionale sui cibi confezionati ad alto contenuto di sale, di zuccheri o carboidrati, come patatine e cioccolata. Se Finlandia e Norvegia hanno già introdotto questa tassa, anche in Svezia gli esperti spingono per una fat tax. [...]» (Burchia, Corriere della Sera, 1 ottobre 2011).
La tassazione danese in oggetto potrebbe anche riuscire a ridurre il consumo di sostanze grasse, ma con il grosso rischio di creare nel contempo disfunzioni di tipo nutrizionale. Tassare l’olio di oliva, la cui composizione in acidi grassi è principalmente di tipo insaturo, è una sciocchezza dettata probabilmente dall’esigenza burocratica di definire una regola per la legge. E, comunque, tassare i grassi saturi perché tali non ha un senso nutrizionale. Nel contempo con questa legge si scoraggerebbe il consumo di derivati del latte, con la probabile conseguenza di ridurre di poco il colesterolo ma molto di più l’osteoporosi.
Un altro punto da sottolineare è che in condizioni di un’alimentazione che ecceda nel contenuto calorico, anche gli zuccheri si trasformano in grassi e quindi sarebbero da tassare anche questi ultimi se il quadro della legge fosse completo. Infatti in Francia c’è la tassa sulle bevande zuccherate, di cui abbiamo già parlato per i loro effetti; ma se la Francia avesse fatto una legge in funzione del consumatore avrebbe dovuto colpire anche le bevande con l’aggiunta di edulcoranti, coloranti, caffeina e taurina che non sono più salutari delle bevande zuccherate.
Quindi, sottolineando ancora una volta che è difficile creare una netta linea di demarcazione tra cibi sani e junk food; il cibo – se è considerato nocivo – dovrebbe essere vietato e non tassato, perché un cibo nocivo, a quel punto, perde lo status stesso di cibo. Una tassazione, inoltre, colpisce tutti indistintamente, anche quelle categorie di persone normopeso (che troppe volte sfuggono alle statistiche) che basano la loro alimentazione su prodotti di base perché sono economicamente disagiate.
Se però uno Stato sceglie di favorire un certo tipo di consumo rispetto ad un altro, la soluzione di introdurre delle tasse diventa plausibile: nell’Unione Europea ci sono già aliquote I.V.A. differenziate a seconda dell’alimento; ad oggi, in Italia l’I.V.A. sul pane è al 4% e sul vino al 21%.
Ma il vero punto è un altro: se si vogliono introdurre queste tasse, non sarebbe più corretto che con i soldi ricavati si favorisse il consumo dei cibi considerati “sani” da parte della popolazione più povera? Le modalità sarebbero molteplici, ma escludendo le campagne di sensibilizzazione che hanno un effetto limitato, una soluzione potrebbe essere utilizzare i ricavi per l’abbattimento del costo dei cibi sani solo per le fasce deboli economicamente o per chi necessita di un cambio di alimentazione a seguito di prescrizione medica; perché non una Card in convenzione con supermercati e negozi, caricata di un importo spendibile solo per l’acquisto di determinati beni come frutta, verdura, pesce, prodotti caseari, pane fresco e pasta, olio d’oliva? Potrebbe incentivare le fasce deboli, che non è detto abbiano la capacità economica per cambiare comportamento alimentare. Infatti, se venisse aumentato di prezzo il prodotto che consumano di solito, seppur junk food, ciò le costringerebbero a consumare un prodotto di qualità ancora più scarsa, in assenza del tempo materiale per informarsi, sbattute come sono tra turni di lavoro massacranti e trasferimenti per il ritorno alle proprie abitazioni. Tutto ciò se fosse reale l’intenzione degli Stati di ridurre l’incidenza dell'obesità e delle malattie ad essa legate; cosa che non è detto sia così sicura.>>

(Testo tratto dal libro "Il Piatto Piange" di Andrea Meneghetti vedi qui)

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