giovedì 12 aprile 2012

Spreco alimentare e perdita fisiologica 1/4

Si riporta ora la prima parte di una serie di interventi sullo spreco alimentare che è uno degli argomenti principali che hanno portato alla scrittura del libro "IL PIATTO PIANGE".
Bisogna infatti essere stufi di sentire dire sempre certe frasi di circostanza, soprattutto da enti che si definiscono scientifici.
Per comprendere appieno il fenomeno, è necessario avere un approccio completamento evoluto e razionale, sempre che lo si voglia avere. E' importante anche e soprattutto per coloro che vogliono vivere in equilibrio con se stessi e non farsi rovinare la qualità della vita per seguire movimenti culturali retrogradi, emozionali e poco evoluti.
A causa della complessità e della lunghezza dell'argomento, si divide la trattazione del passo del testo in quattro parti.

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Lo spreco e la “perdita fisiologica”

È giunto il momento di parlare di uno dei casi etici che maggiormente influenza l’opinione pubblica: lo spreco dei prodotti alimentari ancora commerciabili, commestibili e/o edibili che vengono gettati dalle varie forme distributive, ma anche lo spreco alimentare che avviene nel consumo casalingo.
Molte delle ragioni etiche che sostengono la “lotta allo spreco” riguardano il fatto che con i cibi gettati, ritirati dal commercio e distrutti si potrebbero nutrire moltissime persone bisognose o che addirittura muoiono di fame, vicino a noi o in altre aree delle terra. Inoltre, si dice che sprecare il cibo “non è bene”. Questa è chiaramente una visione fortemente etica della situazione ma che non ne fa trasparire le ragioni profonde, cioè non ci spiega perché “non è bene”, cosa ci sia di sbagliato.
Per iniziare questa analisi, bisogna fare un passo indietro e porci le solite domande etiche:
Perché bisogna salvare il maggiore numero di persone? Riguarda il fatto che, per una questione ancestrale, vogliamo salvaguardare la nostra popolazione di riferimento?
Perché non bisogna sprecare il cibo? Inconsciamente pensiamo che prima o poi possa servirci?
Posti questi punti, cerchiamo di capire la differenza tra ciò che può essere considerato eccedenza ed invece ciò che può essere considerato spreco.
L’eccedenza è quella quota di produzione che non serve ad una determinata popolazione o gruppo famigliare e che, nel caso degli alimenti, diventa un rifiuto con costi per lo smaltimento (quindi non è solo un problema che riguarda altri che muoiono di fame).
Quando, dall’altro lato, cerchiamo di definire che cosa sia da considerarsi spreco, non solo non troviamo un’univoca definizione, ma anche una diversa percezione dello stesso; in generale, potrebbe essere comunque definito come un’eccedenza che viene gettata o lasciata deperire, quindi connessa ad una non ottimale allocazione delle risorse.
La domanda alla quale rispondere ora, potrebbe essere: perché uno stesso comportamento alimentare (ad esempio, lasciare mezzo panino nel piatto), per un soggetto è spreco e per un altro non lo è? Difficile rispondere in poche parole; sicuramente, però, i soggetti credono di agire o pensare in modo corretto (almeno nei propri confronti) e una scelta o l’altra non è da considerarsi, in termini assoluti, sbagliata. Chi vede il mezzo panino lasciato nel piatto a fine pasto come uno spreco potrebbe aver ragione in quanto poteva essere utilizzato da qualcun altro per sfamarsi, mentre chi non ha finito il panino potrebbe averlo fatto per ragioni di salute o caloriche. In effetti, costringersi a mangiare anche quando si è raggiunta la sazietà, per paura di sprecare, è un comportamento che a lungo andare può portare anche a problemi di salute come sovrappeso, obesità, malattie cardiovascolari ecc.
Bisogna quindi introdurre il concetto di “perdita fisiologica” dei prodotti alimentari.
Negli atti produttivi di coltivazione, raccolta, trasporto, trasformazione, distribuzione e poi nel consumo degli alimenti, una perdita avviene sempre e comunque, per la natura stessa dei prodotti (deperimento, insudiciamento degli stessi ecc.) Vanno poi considerati le rimanenze nei recipienti, gli errori di preparazione, le fermentazioni che riducono la quantità disponibile o impediscono il consumo dei cibi.
Inoltre una certa quota di alimento viene persa a seconda di come viene impostata, progettata ed implementata la catena agroalimentare. Gli agenti che influenzano e determinano questa struttura sono lo Stato e le sue leggi, le catene distributive, le amministrazioni locali e le regole per lo smaltimento dei rifiuti, le industrie e le organizzazioni delle stesse, i finanziamenti e i contributi alle produzioni ed al riciclo, gli sgravi fiscali su determinate forme di riciclo. A seconda degli enti pubblici, delle industrie, delle catene distributive, delle associazioni, delle regole, in uno Stato esiste una certa situazione più o meno dinamica in merito alla gestione delle eccedenze alimentari. Per dare due estremi: da un lato ci sono dati che indicano che il 40% del cibo U.S.A. viene gettato e dall’altro ci sono organizzazioni in Italia che riescono a gestire la riduzione della quota gettata di alimenti tramite la redistribuzione dell’eccedenza prima che essa diventi rifiuto.
L’altro aspetto da considerare è che lo spreco va percepito come tale. Agli occhi di alcuni c’è “spreco” se componenti alimentari sono destinate a rifiuto, mentre per altri è assolutamente il contrario. Analogamente, ci sono famiglie che tengono il televisore o le luci sempre accese, anche in casi di non particolare ricchezza: per alcuni questo è uno spreco in termini economici, per altri è uno spreco in relazione all’impatto ambientale che quel comportamento determina, ma altri ancora non lo rilevano come spreco: lo stesso identico comportamento può essere valutato in maniera diversa, a seconda del grado percettivo dell’osservatore.
Possiamo quindi individuare il motivo per cui sul cibo, forse per un condizionamento ancestrale (presente nei nostri geni), la sensazione di spreco si fa marcata: c’è una maggiore percezione dello spreco perché il cibo è necessario al nostro sostentamento.
Se abbiamo considerato la creazione di rifiuti alimentari da parte dell’industria, della grande e piccola distribuzione, dei dettaglianti e degli artigiani alimentari, dobbiamo dunque considerare anche il consumatore finale ed i suoi stili di vita, valutando le ragioni per le quali egli getta un alimento. Le ragioni sono sostanzialmente riconducibili a queste:
- acquisto eccessivo (magari per aver ceduto alle offerte o approfittato degli sconti quantità dei negozi e dei supermercati, nelle loro ben congegnate campagne pubblicitarie);
- acquisto errato;
- prodotto andato in scadenza;
- prodotto andato a male;
- prodotti non gradito;
- prodotto danneggiato a seguito del trasporto o per altre cause che ne rendono inopportuno il consumo.
Per completezza, una parte del fenomeno “rifiuti alimentari” va ascritto al fatto che lo stile di vita è cambiato negli anni e nelle famiglie, che i single hanno sempre meno tempo da dedicare alla preparazione dei pasti e che non c’è più l’abitudine di recuperare gli avanzi. Quindi il fattore “tempo” ha una grande influenza sulla quantità ed il tipo di prodotto che viene acquistato.
Senza indugiare su riflessioni sui rapporti tempo disponibile–tipo di attività lavorativa– reddito, si può capire che chi ha un reddito elevato può acquistare cibi che hanno una maggiore convenience o alto contenuto tecnologico, ad esempio un pasto già pronto. Questi cibi hanno, molto probabilmente, un più alto costo ambientale, anche se non è detto che ci sia una maggiore quantità di rifiuto alimentare. Dall’altro lato, molti soggetti a reddito basso, pur non avendo tempo, comprano prodotti poco costosi con il rischio che questi vengano poi gettati perché non buoni dal punto di vista organolettico e difficilmente riutilizzabili.
Da analizzare ci sono anche le abitudini di consumo. Quando le situazioni economiche e sociali cambiano, costringono i consumatori a cambiare abitudini. Negli ultimi anni, a seguito delle crisi finanziarie, dell’aumento della popolazione mondiale, della tensione sui prezzi dei prodotti alimentari, la competizione per gli spazi agricoli tra chi vuole produrre derrate agricole o biocarburanti, si sono introdotte campagne per un consumo alimentare più consapevole. Questa necessità di “riformulare le menti” della gente e cambiarne le abitudini alimentari è cruciale, perché, se non si sta attenti, non ci saranno risorse neanche per le fasce medie della popolazione e, per assurdo, neanche per quelle più ricche se la tensione sul reperimento delle fonti alimentari si facesse troppo alta. Tutto ciò sia per quel che riguarda la disponibilità di cibo ma anche (soprattutto) per i problemi di inquinamento ed eco-sostenibilità della vita sul pianeta. In poche parole, si fa sapere alla fascia ricca o media che deve iniziare a recuperare modalità di consumo ormai dimenticate per mantenere lo standard di qualità della vita al quale si è abituata.
Le risposte a queste campagne mediatiche si sono tradotte in nuove tendenze alimentari:
 - Richiesta della produzione di tipo biologico, sia in ristorazione collettiva che per il consumo privato.
- Richiesta di prodotti definiti a “km zero”.
- Indirizzamento della popolazione sull’acquisto di prodotti stagionali.
- Riscoperta della modalità di recupero degli alimenti.
- Ridefinizione delle diete indirizzate alle giuste scelte nutrizionali e riduzione del consumo di carne e grassi a favore di frutta e vegetali ricchi in fibre.
- Creazione dei gruppi d’acquisto.
- Richiesta di prodotti freschi e non trattati.
- Coltivazioni di orti privati e anche su suoli comunali e nelle scuole.>>
(Testo tratto dal libro "Il Piatto Piange" di Andrea Meneghetti vedi qui)

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