sabato 19 maggio 2012

Lo scarto ontologico tra uomo e animale

<< Lo scarto ontologico tra uomo e animale e tra gli animali

Nella filosofia biologica uno dei principali dibattiti riguarda lo scarto ontologico tra uomo e animale. Pur non vantando competenze specifiche in questo settore, un’opinione sull’argomento è comunque d’obbligo. Per scarto ontologico si intende, in poche parole, la differenza sostanziale tra uomo ed animale, se cioè, in altri termini, uomo ed animale siano fondamentalmente la stessa cosa e, qualora ciò non fosse vero, quali siano gli elementi che li differenziano.
Come approccio, bisogna affermare che l’uomo è prima di tutto un animale, inteso anche come categoria biologica del mondo del vivente, che è chiaramente una classificazione antropocentrica. Esiste una differenza evolutiva che si nota soprattutto nello sviluppo neuronale e del sistema nervoso centrale, ma lo scarto ontologico si propone soltanto nella testa dell’uomo, non è una realtà biologica e lo è solo in parte dal punto di vista della genetica.
L’esigenza di credere che ci sia una netta separazione tra l’essere umano e l’animale è di tipo etico ed ha la funzione di mantenere l’equilibrio psicologico. Infatti, se non creassimo questa differenza a livello cerebrale, ci troveremmo a dover risolvere molti dilemmi su come trattiamo gli animali e sul perché li utilizziamo per il nostro nutrimento: «[...] lo schiacciante consenso biologico sulla evoluzione [darwiniana] fa sorgere due domande cruciali “Cosa è un animale?” e “Come siamo noi tenuti a trattare eticamente gli animali? […] A causa del fatto che persone e animali condividono così tanto (geneticamente e quindi anche fisiologicamente), le risposte date spesso enfatizzano le caratteristiche che sono pensate essere uniche per gli umani, come le abilità di usare il linguaggio, impiegare ragionamento e usare degli strumenti. Ma la difficoltà con quella linea di argomentazione è che alcune persone (come tutti i bambini, alcuni malati gravi, alcuni anziani e alcuni disabili mentali) non hanno ugualmente queste abilità, dove certi animali dimostrano abilità di “linguaggio” (o almeno marcate capacità di comunicazione), ragionamento e capacità di costruire piccoli strumenti. In più, in accordo con lo zoologo Maurice Burton, gli animali dimostrano molti supposti attributi umani come compassione, gratitudine, amicizia, fedeltà e dolore. Così, se il nostro trattamento degli animali come fonte di cibo o negli esperimenti era considerato eticamente accettabile semplicemente perché noi (in qualche grado erroneamente) credevamo che loro mancassero questi attributi umani, noi vorremmo logicamente richiedere di accettare che certi adulti e tutti i bambini possano essere trattati eticamente nella stessa maniera» (Mepham, 2008:160).
È chiaro che l’uomo, essendo geneticamente più evoluto, ha uno sviluppo neuronale maggiore che gli consente di avere tutta una serie di abilità come il linguaggio, che negli animali più evoluti troviamo solo in maniera pressoché accennata, almeno rispetto alle capacità umane; tra l’altro questi comportamenti animali possono sembrare simili, ma non corrispondono a quelli umani, in quanto derivanti da un altro processo evolutivo ed adattivo.
Il giudizio umanizzante del comportamento animale è estremamente fuorviante. Infatti il dubbio etico nasce proprio perché confondiamo queste simili e semplicistiche forme comportamentali di atteggiamento animale con qualcosa che riconosciamo anche nei nostri stessi simili. Ovvio che il dolore è provato anche dall’animale in base al suo grado di sviluppo neuronale, ed è per questo che in alcuni soggetti umani cresce il dubbio etico in base alla loro empatia verso queste forme di vita. Ma se saltassimo a piè pari il fatto che etica è, prima di tutto, difesa di noi stessi – e in questo caso, della specie umana – diventerebbe chiaro perché non si riesca a capire che i bambini, debolissimi, devono essere difesi per il proseguo della specie umana e quindi non possono essere trattati alla stregua di una mucca, di un cane o di un insetto. E così gli anziani, che seppur alle volte non sono più in grado di esprimersi o muoversi, “rimangono” a livello mentale come coloro che ci hanno dato la vita ed appare chiaro perché per alcuni di noi sorga un dubbio etico di protezione nei loro confronti, anche se queste persone non sono più produttive come un tempo o non riescono più ad interagire con il mondo esterno; fra l’altro, gli anziani possono essere depositari di esperienza e saggezza che ci potrebbero tornare utili, ed è per questo che viene loro riconosciuto un ruolo superiore rispetto ad un animale. Per finire, i portatori di handicap vengono difesi e mantenuti, soprattutto nelle società ricche che se lo possono permettere, perché sono gli stessi genitori che li hanno messi al mondo ad amarli (esiste quindi la presenza di reali connessioni cerebrali), oltre all’adesione ad altre forme di morale come quella religiosa, che vede in ogni vita umana un figlio di Dio.
In questo quadro di corto circuito etico, il modo con il quale trattare gli animali diventa alquanto difficoltoso: «[…] il concetto di Benessere Animale è almeno controverso, perché poche persone negano che noi non dovremmo essere crudeli con gli animali. Molte persone hanno stretti rapporti affettuosi con gli animali nel domestico e in altri contesti, ma riconoscono personali contraddizioni nei loro atteggiamenti; in ciò che il limite della sofferenza dell’animale è considerato eticamente accettabile spesso dipende dal potenziale beneficio che potrebbe risultare dai modi in cui sono usati. Alle volte la contraddizione è netta – come quando alcune persone trattano i conigli come animale da compagnia, o come cibo o come un soggetto da esperimento» (Mepham, 2008:162).
Quindi l’ipotesi che l’etica cambi con la percezione che si ha dell’animale è ancora una volta giustificata, ma non basta. Infatti la percezione dell'animale, ma soprattutto della sua sofferenza, è legata anche al grado di sviluppo neuronale dell’animale e alle sue forme di manifestazione del dolore. E non è ancora sufficiente, perché, in ultima analisi, bisogna considerare che nella creazione di dubbio etico rimane fondamentale il punto di vista personale di ogni singolo individuo. A titolo di esempio: se in genere nessuno si preoccupa se una quercia viene tagliata, è invece facile che si creino dei comitati contro l’abbattimento di una vecchia quercia simbolo di una comunità, nel centro di una cittadina. È chiaro che non c’è alcun tipo di sviluppo neuronale da parte delle piante, ma una percezione da parte delle persone di quella comunità per quella specifica quercia esiste, ed è ciò che conta nella determinazione dell’etica. In altre parole, conta il valore particolare che viene dato da ogni singola persona ad ogni singolo e specifico essere vivente; se pure la quercia avesse uno sviluppo neuronale capace di far percepire una sua sofferenza nell’atto del taglio, sicuramente ci sarebbe una ancora maggiore risposta empatica da parte dell’opinione pubblica, come quella che si esprime  nella difesa del verde pubblico e degli spazi naturali in diversi livelli della nostra società. Il grado di sviluppo neuronale è importante, quindi, nella misura in cui l’essere vivente risponde ai nostri input e stimoli tali da influenzarne la nostra percezione e la nostra empatia nei suoi confronti.>>

(Testo tratto dal libro "Il Piatto Piange" di Andrea Meneghetti vedi qui)

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